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La nuova vita delle uve dimenticate: Guarnaccia, Cannamela e San Lunardo
Una rinascita enologica a tutto tondo quella dei vitigni minori, un patrimonio che testimonia il glorioso passato delle nostre terre affacciate sullo splendido mare di Ischia.
Vitigni d’Ischia: rinascono quelli minori
Tra i vitigni d’Ischia, ci sono antichi monumenti della biodiversità locale che coraggiosamente, grazie all’impegno di pochi contadini e soprattutto di Giancarlo Carriero, patron dell’Hotel Regina Isabella a Lacco Ameno e il suo progetto Le Vigne dell’Indaco, ritrovano una nuova vita anche se in piccolissime e ridotte quantità.
Un viaggio nella grande bellezza ampelografica ischitana dove, accanto a uve come Biancolella e Forastera, si affiancano uve che ritornano dal passato e parlano di tradizione, delle nostre campagne e dei nostri viticoltori eroici: vitigni come la Guarnaccia, il San Lunardo o la Cannamela possono dire poco a molti winelover ma dicono tanto della nostra storia e di chi per lungo tempo ha accarezzato e coccolato le poche barbatelle ancora presenti.
Guarnaccia a Ischia
La Guarnaccia, ad esempio, ha riscoperto una nuova attenzione grazie alla sua incredibile concentrazione di antociani, benché i tannini presenti non siano estremamente eccessivi. Salvatore D’Ambra già nel 1962 la descriveva con il sinonimo di “Uarnaccia” ed è coltivato da epoca remota sull’Isola, un piccolo capolavoro di viticoltura, presente nel nostro famoso Pignanera.
Cannamela: antica e “difficile”
Definito un “uvaggio in grappolo” dal celeberrimo Luigi Moio, la Cannamela è un’uva estremamente difficile da coltivare, caratterizzata dalle bacche disomogenee nel loro colore: acini verdi, acini rosati e altri rossi, più maturi.
Chiamata localmente anche “Cannamele” o “Cannamelu“, il vitigno viene descritto per la prima volta nel 1848 da Vincenzo Semmola nel “Delle Varietà di vitigni del Vesuvio e del Somma”, nella quale descrive una varietà di Cannamele risultata molto simile a quella ritrovata poi a Ischia.
San Lunardo: freschezza e sapidità
Il recupero e la valorizzazione di antiche varietà passano anche attraverso il San Lunardo, dal grappolo compatto e di forma piramidale; un’uva a bacca bianca sulla quale non si hanno precisi riferimenti storici, al contrario di Guarnaccia e Cannamela.
Conosciuta anche come “Don Lunardo“, sembra che il suo nome derivi dal prete che una volta abitava nell’isola e che la coltivò per primo o da San Leonardo, il Santo patrono di Panza, a Forio.
Nel progetto Le Vigne dell’Indaco, fortemente voluto da Giancarlo Carriero e dal wine writer Ian D’Agata e presentato in anteprima al Vinitaly 2016, l’antico vitigno ischitano ha presentato in vinificazione una sorprendente acidità, sapidità e freschezza, tali da renderlo ideale per l’abbinamento al cibo.